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[ uomini e cappelli ]
Vincent - Quanto mi dici è del tutto vero: ‘La serietà è migliore dell’ironia, per quanto acuta e intelligente possa essere”. In altre parole che bonté vaut mieux que malice, questo è evidente; ma molti dicono: ‘No. La malizia è il punto’. Bene, dovranno raccogliere quanto hanno seminato.[1]
(dialogato coi vivi)
–  Proprio negli anni in cui Heidegger teneva le sue conferenze su L’origine dell’opera d’arte, l’ebreo tedesco di origine lituana Goldstein [2], dopo aver trascorso un difficile soggiorno ad Amsterdam, si trasferiva definitivamente negli USA per iniziare il suo insegnamento alla Columbia University di New York. Qui avrebbe incontrato e frequentato Meyer Schapiro, docente nella stessa Università, anch’egli di estrazione ebraica ed emigrato dalla Lituania ma quando aveva appena tre anni. 

Adesso dimmi: è stato Schapiro a ricordare queste vicende che riguardavano sia lui che Goldstein?

– Niente affatto. Schapiro, si era limitato a ringraziare Goldstein in una nota al testo sulle scarpe [3] e a dedicargli l’intera raccolta di saggi che lo contengono. E’ Derrida, nella sua conferenza alla Columbia University, a ricordare e raccomandare di tenere bene a mente questi fatti [4], nell’intenzione, suppongo, di (di)mostrare come il vero movente di Schapiro in questa disputa delle scarpe, fosse quello di restituire a Goldstein (da poco morto) quanto maltolto da chi era implicato con i fatti che costrinsero l’ebreo ad emigrare dalla Germania nazista, con la quale Heidegger era fortemente compromesso…

– Dunque, per Derrida, Schapiro non sarebbe tanto interessato alle questioni inerenti l’opera, quanto sollecito a risarcire un vecchio debito in forma di scarpe... Ma Derrida pensa ciò con una coscienza che si è fatta carico della coscienza di Heidegger?… o è solo una coda di paglia professorale e competitiva nei confronti di uno storico dell’arte che s’impiccia di metafisica?

– Magari è per l’insieme di questi e di altri diversi aspetti che Derrida si è sentito in dovere (ma anche in piacere) di metter piede in (e tra) queste scarpe [5]. Ma ciò che il francese ha detto riguardo a debiti intellettuali e “politici” di Schapiro verso Goldstein in questa faccenda di scarpe, potrebbe valere anche per Derrida stesso: custode di un qualche sentimento debitorio nei confronti del filosofo tedesco, o meglio del suo pensiero. Ognuno poi ricompone sempre le spoglie che gli competono; tanto sarebbe dovuto a Goldstein da parte di Heidegger quanto ad Heidegger da parte di Derrida. Al primo spetterebbero magari le scarpe di van Gogh, come al secondo il diritto di parlare di scarpe in nome dell’Essere o per conto della verità (per mezzo) dell’opera d’arte.

Cosa mai avrebbe detto esattamente l’americano da piccare la suscettibilità del professore francese?

– Schapiro sostiene che nessuno dei quadri di van Gogh “consente di affermare che esista una tela di van Gogh, raffigurante delle scarpe, in grado di esprimere l’essere o l’essenza delle calzature da contadina, o il loro rapporto con la natura e il lavoro [dei campi]. Si tratta piuttosto di scarpe dell’artista, tipiche di un uomo che in quel periodo viveva in città, di un cittadino”. E con ciò l’americano ascriverebbe ad Heidegger quel medesimo preciso “errore esiziale” contro cui aveva messo in guardia e da cui lui stesso si mette in guardia… [6]

Ossia che una “personale visione” della società abbia immaginato la contadina come proprietaria delle scarpe dipinte da van Gogh? [7] 

– Tanto più Derrida sminuisce la sottrazione delle scarpe a van Gogh quanto più Schapiro (senza mai citare la conferenza di Derrida) insisterà per ridarle a van Gogh, contendendole alla contadina, al tedesco e al francese, anche con argomentazione cara a quest’ultimo.[8]

Fin qui ogni cosa sembra riguardare - diciamo così - un “disturbo” professionale e sentimentale… Ma, Derrida, dove avrebbe colto, nel testo di Schapiro, le tracce di un ri-sentimento “politico” nei confronti di Heidegger?

– Ai tempi dei primi incontri alla Columbia University, tra Goldstein e Schapiro c’era stato sicuramente un parlare di questo indaffararsi della metafisica sul corpo d’Europa.  Ma è chiaro che ora, nel 1968 (nell’imminenza della pubblicazione del suo scritto sulla natura morta) Schapiro non ha nessuna intenzione di offrire al pubblico una polpa succosa in cui affondare i denti. Lui si vuole attenere alla parola di Heidegger. Così, oltre all’accusa diretta di trascurare la persona reale dell’artista [9], ossia van Gogh, non ho trovato altro che l’addebito di Schapiro ad Heidegger di una “visione della società, che rivela una sensibilità per ciò che è primordiale e terreno”.[10]

E da questa sola frase Derrida avrebbe sviluppata una sorta di equazione del tipo: primordiale + terreno = terra e sangue = sangue e suolo → nazional-socialismo… per assegnare a Schapiro la malagrazia di  alludere al coinvolgimento politico di Heidegger?

– E’ possibile che Goldstein, l’ebreo braccato, ci avesse fatto il naso ai battitori e abbia annusato, nella scarpa contadina di Heidegger, il lezzo di stivali tirati a lucido da un intero popolo che si era unto alla caccia. Derrida certo ne tiene conto [11]… senza però poi renderne conto; come vi fosse l’ovvio di una cesura netta tra il pensiero e la persona che pensa, tra la filosofia e il filosofo in occasione di un trascurabile esperimento andato a male nella rischiosa coniugazione di metafisica e storia, di progetto ed esecuzione…

E’ veramente singolare, insomma, che il puntiglioso professore francese abbia ritenuto importante riferire e raccomandare di tenere bene a mente le vicende personali di Goldstein e di Schapiro (ebreo dal passato di simpatizzante trotskista)… mentre ad Heidegger non avrebbe fatto il medesimo servizio inseguendolo sulla sua propria pista, segnata da orme molto visibili…

– La raccolta dei saggi di Derrida che termina con quello sulla restituzione delle scarpe, include una trattazione sul parergon [12]. L’ergon, essendo l’opera, il parergon è quanto è “in posizione subordinata e in più dell’opera, ma  coopera, da un certo di fuori, come un accessorio” [13]. Per farla breve e dare una visione immediata del concetto, la cornice di un dipinto è un tipo di parergon; un ornamento esterno all’immagine, che tuttavia è parte integrante del dispositivo della rappresentazione. Vi sono parerga visivi o narrativi… come antefatti o retroscena, magari  appena accennati, marginali... e tuttavia…

Vuoi dire che anche le vicissitudini personali di Heidegger possono considerarsi come un efficace ausilio per pedinarlo nel suo metafisico bosco dove si aggira in cerca dell’origine dell’opera d’arte, e vedere magari cosa vi raccoglie?

– D'altronde Derrida per primo ha presentato le vicende personali di Goldstein e Schapiro come dei validi parerga con i quali si aiuta, e ci aiuta, a seguirlo nel ri(de)costruire e indagare i motivi (segreti) che starebbero all’origine dell’esigenza di Schapiro di restituire le scarpe a van Gogh, ovvero a Goldstein – se non a sé stesso.[14]

Ma se Derrida si mette alla ricerca del vero movente di Schapiro in questo affare di scarpe, significa che lui ha ritenuto il quadro di van Gogh non abbastanza interessante per il professore di storia dell’arte della Columbia University, che pure aveva dedicato una monografia all’opera del pittore[15]…Insomma, sembra proprio che in definitiva l’opera reale non importi proprio a nessuno! Sarebbe solo un presto… Allora è proprio un mezzo…!

– …Che tutti vogliono togliere di mezzo… non prima però di averci messo i piedi…! Comunque, giusto per esaurire l’argomento in argomento - le scarpe come tali, in quanto rivestimento o accessorio esteriore del corpo, sono un classico parergon. Pertanto Schapiro si sarebbe incaricato, in realtà,  non solo di ricomporre ma anche di rivestire, dalla testa ai piedi, la spoglia di van Gogh, ovvero quella di Goldstein - e forse pure di preparare la propria… Ma il ricorso all’idea di parergon serve anche a svalutare le argomentazioni di Schapiro. In che modo? Derrida mette in rilievo che in  Heidegger le “scarpe da contadino” sono l’esempio di un esempio. Ora, per l’appunto, l’esempio è una particolare specie di parergon, e le scarpe in quanto esempio sarebbero state benevolmente offerte da Heidegger per aiutare chi non avesse abbastanza giudizio nel seguire le arditezze del suo germanico filosofare…

In sostanza le scarpe sarebbero una semplice protesi argomentativa per aiutare chi è inabile a progredire da solo nella tesi... Sembra la triade di un’ortopedia hegeliana: tesi, protesi e sintesi!

– Considerate come un mero esempio, le scarpe di van Gogh  effettivamente sono del tutto inessenziali ai fini della disputa ontologica sull’opera d’arte… Mentre Schapiro le avrebbe prese troppo alla lettera – sembra dirci Derrida.

Dopo un simile trattamento, ridotte alla stregua di una sedia a rotelle o di un bastone raccolto sulla via, di quelle scarpe (reali e dipinte) rimane ben poco a Schapiro da disputare ad Heidegger: un nulla da restituire a chi realmente aveva consumate le proprie scarpe reali errando per i sentieri d’Europa.

– In questo travisamento delle scarpe in stampelle del giudizio, avverto qualcosa di nocivo... Forse perché i passi successivi possono portarci verso scarpe ortopediche, scarpe correttive o stivaletti di tortura del giudizio... Non solo le scarpe ma anche l’opera d’arte e l’arte stessa, cadrebbero tutti facilmente sotto la categoria del “mezzo”, come  girelli dello spirito… Ma per condurci dove?

Comunque sia, l’esempio delle scarpe, collocato al margine o al bordo del discorso sull’origine dell’opera d’arte, non avrebbe dovuto esser preso a bordo da Schapiro o da Goldstein… ma neppure da te, che mi sembri camminare piuttosto con scarpe del pre-giudizio; perché intuisco che tu vuoi prendere un sentiero che lo stesso Schapiro non ha proprio voluto imboccare.

– Ne ho forse fatto mistero? Non parlerei però di pregiudizio. Magari si tratta di preparare un colpo basso. Certamente più basso della filosofia… Ma, che diamine! in fondo stiamo sul fondo: nelle scarpe, appunto.

A ben vedere queste scarpe dipinte da Vincent sono fin troppo consumate per aiutare qualcuno a marciare. Sembrano ridotte ai piedi stessi, che ci guardano per dirci: massacrati dalla fatica, proprio nessun girello ha confortato il nostro cammino.

– In fondo la mia curiosità non è mai stata governata da un chiedersi di chi fossero in verità le scarpe contese; piuttosto: se sono un “mezzo”… tra quali cose esercitano la loro mediazione? E questo possiamo scoprirlo solo se le vediamo all’opera fino al dove  sono arrivate (concretamente, storicamente) insieme al loro portatore… chiunque fosse…

Delle scarpe Heidegger dice che “questo mezzo serve da calzatura. Col variare dell’uso – lavoro dei campi o danza – variano la forma e la materia”.[16]

– Veramente le scarpe non son fatte per essere calzate, piuttosto son fatte per camminarci, per andare… Ma abbandonandole a sé stesse andranno inevitabilmente là dove sono pre-disposte e pre-gettate dalla loro materia e forma [17]. Allora dobbiamo chiederci: attribuendole senz’altro al contadino chi è che pregiudica il cammino delle scarpe... e dell’opera d’arte? Certamente è sempre possibile un uso improprio di “scarpe da contadino” quando ad indossarle, nello svolgere il loro particolare lavoro, sono un carrettiere o un pittore di paesaggi notturni con un giro di candele accese sulle falde del cappello… Ma prima avremmo dovuto chiarire cosa fa (in materia e forma) di un paio di scarpe generiche delle scarpe specifiche, ad esempio: da contadino. Alla fine (anche se qualcuno crede di vedere lo spettro di una lumaca strisciar via dai lacci delle scarpe di van Gogh [18]), chi mai, osservatore comune “libero dall’autorità dei suoi devoti maestri” (direbbe Schapiro [19] guardando quelle scarpe dipinte come un ecce Vincent [20]) coglierebbe un nesso con una contadina e il suo Mondo? Tuttavia per Heidegger era necessario definirle “contadine” fin dalla prima mossa e darle in possesso alla contadina. Se le scarpe fossero state date immediatamente a van Gogh non credo proprio che ci avrebbero condotto al cospetto finale di un’aspirazione poetica degna di un servo che non abbandona il posto vicino all’origine assegnatogli dal destino: una servitù per convinzione tipica di un pezzo d’Europa.[21]

– Possibile che sarebbe arrivato fin qui il fiuto di Goldstein e di Schapiro… ma non quello, sopraffino, di Derida?

– Forse, come Schapiro, neppure Derida vuole offrire bocconi rimasticati ai denti del risentimento… Ma per evitare di chiedere alla filosofia di render conto dei suoi cattivi incontri era proprio necessario far tante escursioni nella metafisica con le pesanti scarpe di van Gogh?

[1] -  V. van Gogh, lettera a Theo, n. 251, cit. 3-5 dicembre 1882.
[2] - Kurt Goldstein era stato messo in carcere e liberato alla condizione di abbandonare la Germania nazista nel 1933; nel 1935 raggiunge gli Stati Uniti ed inizia l’insegnamento alla Columbia l’anno successivo. Nato a Katowice nel 1878, neuropsichiatra, professore prima a Königsberg, e poi a Francoforte, si dedicò allo studio dei disturbi motori e sensori, delle allucinazioni, dell’alcolismo, della schizofrenia e all’analisi sistematica delle turbe del comportamento. Particolarmente noti i suoi studi sull’afasia e altri disturbi funzionali del cervello. Goldstein insegnerà alla Columbia fino al 1965, anno della sua morte; ed è in questo stesso anno che Schapiro interpella Heidegger per chiedergli conto delle scarpe di van Gogh.
[3] - “Sono riconoscente a Kurt Goldstein per aver attirato la mia attenzione su questo saggio che fu presentato in origine sotto forma di conferenza durante il corso del 1935-1936”. Verosimilmente Schapiro fa riferimento alla prima edizione in inglese del 1958; nulla esclude però che i due ne abbiano parlato precedentemente, sulla scorta di testimonianze di chi poteva aver assistito alle conferenze o al corso estivo dell’Introduzione alla metafisica del 1935, dove il quadro di van Gogh era stato citato per la prima volta.
[4] - Raccomanda Derrida (Restituzioni, cit. p. 260):  “ricordatevi di questi fatti e di queste date …Goldstein arriva proprio dopo un difficile soggiorno di un anno ad Amsterdam, dove aveva scritto La struttura dell’organismo. Proprio in quegli anni Heidegger teneva i corsi sull’origine dell’opera d’arte e Introduzione alla metafisica (i due testi in cui fa riferimento a van Gogh)”.
[5] - Dice Derida riferendosi a Schapiro (Restituzioni, cit. p. 268):  “Uno dei due è uno specialista. La pittura, e in particolare van Gogh, è un po’ il suo campo, e vuole tenerselo, vuole che gli sia restituito – costui vorrebbe indietro, da Heidegger, la competenza sulla pittura”. Messa in questi termini, la disputa sarebbe insignificante, e Schapiro vi svolgerebbe una parte un tantino meschina.
[6] - Per quanto dice Heidegger e la confutazione di Schapiro, vedi in Materiali.
[7] - Che il filosofo inganni sé stesso non è affatto nuovo; e neppure nuovo è il filosofo che denuncia il possibile abbaglio per far conseguire (surrettiziamente) che invece quanto egli enuncia non può che essere veridico... altrimenti perché mai avrebbe svelato proprio la possibilità di un inganno?
[8] - Schapiro ha ripreso la questione in due occasioni successive alla conferenza di Derrida del 1977: nel 1981 con un postscriptum, e nel 1994 con Ulteriori annotazioni su Heidegger e van Gogh..  Vedi sotto, Materiali.
[9] - In questa accusa di trascuratezza da parte di Heidegger della “persona reale” possiamo anche arrivare ad includere (oltre il singolo, oltre Vincent) l’uomo generico che, nella sua reale, storica, immediata determinazione sociale, produce materialmente tanto l’opera d’arte quanto un paio di scarpe. Ciò ricondurrebbe il rimprovero di Schapiro nell’ambito di una precisa ideologia politico-sociale, notoriamente avversa a quella di Heidegger.
[10] - Schapiro, L’oggetto personale…, cit. pag. 196.
[11] - Derrida, Restituzioni, cit. p. 312.
[12] - L’indice completo della raccolta di scritti di Derrida La verità in pittura è il seguente: PASSE-PARTOUT; PARERGON; + R - al di sopra del mercato; CARTIGLI; RESTITUZIONI della verità in pointure.
[13] - Derrida, Il parergon, in La verità in pittura, cit. p. 55.
[14] - Derrida, Restituzioni in La verità…, cit. p. 259-260:  “Schapiro si sdebita, in un certo qual modo, di un debito e di un dovere d’amicizia, dedicando la sua Natura morta…al suo amico morto. Non è questo un fatto del tutto indifferente o del tutto estrinseco, come vedremo, o almeno l’estrinseco interviene sempre, come il parergon, all’interno della scena”.
[15] - Schapiro, Van Gogh, Garzanti, Milano 1956.
[16] - Heidegger, Origine, Ni68, cit. p. 18.
[17] - E’ questo a comporre il loro pre-destino “di fronte a cui ogni conoscenza vien meno”? (Cfr. citazione di Marcuse, infra §[signora mia, cos'è mai la filosofia] - riportata qui sotto in Materiali).
[18] - Maurizio Bonicatti, Il caso Vincent Willem van Gogh, Boringhieri, Torino 1977, p. 54.
[19] - Schapiro 1994, Ulteriori annotazioni…. In Semiotiche, cit. p. 205. - Quello che Schapiro scrive per la Natura morta con bibbia, è utilizzato qui per il Paio di scarpe 255.
[20] - Il motivo delle scarpe non è affatto simile a quello dell’Ecce homo. Con l’eccezione di qualche copia dai maestri che amava, van Gogh si è sempre vietato di dipingere la figura del Cristo; e quando la dipingono Gauguin e Bernard, Vincent manifesta aspramente la sua riprovazione (cfr. infra, nota 4 p.113). Di questo convinto astenersi gliene sarà grato Artaud: “Perché non c’è niente di cui io ringrazi di più van Gogh che di non aver cercato, come il Greco, di rappresentare Gesù Cristo, per esempio, e di averci lasciato invece l’immagine adorabile e salutare della sua semplicissima camera da letto la cui armonia supera dal mio punto di vista tanto il calcolo differenziale che la teoria dei quanti e l’imbecille e criminale ipotesi della precessione degli equinozi…” (Artaud, cit. p.94). Vincent fa copie da opere di tema religioso trattandole alla stregua di ogni altro motivo naturale che gli si para dinanzi: le pitture dei maestri amati come girasoli, gruppi di patate, o scarpe vecchie. Con ciò il basso e l’alto si pareggiano, e parimenti il sacro.
[21] - “Anche dal punto di vista storico l’emancipazione teorica ha per la Germania uno specifico significato pratico. Il passato rivoluzionario della Germania è infatti teorico: fu la riforma. Come allora nel cervello del monaco, così ora in quello del filosofo la rivoluzione prende il suo avvio. Lutero vinse, in verità, la servitù per devozione, mettendo al suo posto la servitù per convinzione. Egli spezzò la fede nell’autorità restaurando l’autorità della fede. Trasformò i preti in laici trasformando i laici in preti. Liberò l’uomo dalla religiosità esteriore spostando la religiosità nell’uomo interiore. Emancipò il corpo dalle catene incatenando il cuore.”  [Marx, dagli Annali franco tedeschi – Critica della filosofia del diritto di Hegel: in Scritti politici giovanili, cit., p. 404]. 
“…Che la forma del consenso sia mantenuta o calpestata, la servitù resta servitù. L’entrata volontaria nello stato servile dura per tutto il Medioevo in Germania, sin dopo la guerra dei trent’anni. Quando in Prussia, dopo le sconfitte del 1806 e del 1807, fu abolita la servitù della gleba e con essa l’obbligo per i graziosi signori di soccorrere i loro sudditi in caso di bisogno, malattia e vecchiaia, i contadini presentarono petizioni al re, per essere lasciati ancora nella servitù, altrimenti chi li avrebbe soccorsi nella miseria?”. [Engels, Antidühring, Editori Riuniti, Roma 1968, p. 105].
[22] - Fredrich Schiller, Guglielmo Tell (1804): “Voi vedete questo cappello, uomini d’Uri! Lo si solleverà su un’alta colonna nel mezzo di Altorf, nel punto più elevato e questa è la volontà e l’intendimento del balivo: il cappello deve essere onorato al par di lui, bisogna onorarlo col ginocchio piegato e il capo scoperto. A questo segno il re vuol conoscere gli obbedienti. Vita e beni di chi disprezza il comando andranno al re... (Il popolo ride)".

– Ma ora dimmi: infine Derrida a chi restituisce le scarpe? 

– Sembra che lui preferisce credere che queste scarpe non appartengono a nessuno, e che molto semplicemente ci sono delle scarpe, punto e basta. Ma a questo punto ci si è arrivati dopo troppe piroette sulle punte per non diffidare dell’esibizione…

– Un popolare adagio ottocentesco sostiene che mentre gli inglesi trasformano gli uomini in cappelli i tedeschi trasformano i cappelli in idee [22]

- Se ne potrebbe fare una variante e dire che se gli inglesi trasformano gli uomini in scarpe, i tedeschi trasformano le scarpe in idee… E avere quanto basta per chiederci: la scarpa è forse il cappello del piede?







Fornitura Balcanica 1994, Cappello da Storico con Battilocchio al Prosciutto

MATERIALI ulteriori con riferimento alle note di questo paragrafo.
Nota 6 - Ossia “quello di credere che sia stata la nostra descrizione con procedimento soggettivo, che abbia immaginato tutto ciò, attribuendolo poi a un oggetto” – dice Heidegger. Commenta Schapiro: “Sfortunatamente il filosofo ha ingannato sé stesso. Dal suo incontro con il quadro di van Gogh ha tratto una toccante serie di immagini, associando il contadino alla terra; tuttavia, è evidente che queste immagini non esprimono assolutamente il sentimento intrinseco del quadro, ma provengono piuttosto dalla sua visione della società, che rivela una sensibilità per ciò che è primordiale e terreno. In realtà è dunque il filosofo che ha immaginato tutto ciò, attribuendolo poi a un oggetto. Quello che ha esperito dal dipinto è nel contempo troppo e insufficiente” ... (e su questo troppo e insufficiente ci sarebbe ancora molto da ragionare…).
Nota 8 - Dopo il suo saggio del 1968 (e senza mai citare la conferenza del 1978 di Derrida, dopo la quale sembra aver partecipato alla discussione) Schapiro riprenderà la questione ancora in due occasioni; nel 1981 con un postscriptum; nel 1994, con Ulteriori annotazioni su Heidegger e van Gogh. Nel Postscriptum Schapiro intende segnalare che tra il ’60 e il ’76, sul proprio esemplare dell’Origine il filosofo tedesco aveva posto una glossa autografa in corrispondenza della constatazione che “nel quadro di van Gogh, non potremmo mai stabilire dove si trovino (le scarpe)”, alla quale aggiunge: “né a chi appartengano”. Perché - si chiede Schapiro, quel “né a chi appartengono”? “Dato che l’argomentazione di Heidegger si riferisce alle scarpe di una classe di persone e non a quelle di un individuo particolare, e dato che afferma più di una volta che quelle sono le scarpe di un contadino, non si riesce bene a capire come quella notazione possa risultare indispensabile per far luce sul testo. Il filosofo ha voluto forse riaffermare che, nonostante alcuni dubbi, l’interpretazione era valida anche nel caso in cui le scarpe fossero appartenute a van Gogh? -  conclude Schapiro (rivolgendosi piuttosto a Derrida?).
Nota 17 - "E’ forse responsabile il Terzo Reich, se Heidegger, in qualità di rettore dell’Università di Friburgo, annunzia la nuova era con la frase: “la conoscenza delle cose è in partenza affidata al prepotere del destino e di fronte a esso vien meno? [Ludwig Marcuse, La lotta tedesca contro l’idealismo tedesco, Amsterdam 1934 – riportato in F. Schonauer, La letteratura tedesca…, cit. p. 197].

Vincent Van Gogh, 14 autoritratti con diversi cappelli:
– Col cappello di feltro marrone (F 208a); Parigi, primavera 1886; olio su tela cm.41.5x32.5;  Amsterdam, V.G. Museum;
– Col cappello di feltro marrone, al cavalletto (F 181); Parigi, primavera 1886; olio su tela, cm.46.5x38.5; Amsterdam, V.G. Mus.;
– Col cappello di paglia (F 294); Parigi, marzo-aprile 1887; olio su cartone, cm.19.0x14.0;  Amsterdam, V.G. Museum;
– Col cappello di feltro grigio (F 296); Parigi, marzo-aprile 1887; olio su cartone cm.19.0x14.0; Amsterdam, V.G. Museum.
– Col cappello di feltro grigio (F 295); Parigi, inverno 1886-87; olio su cartone cm.41.0x32.0; Amsterdam, Rijksmuseum;
– Col cappello di paglia e pipa (F 179v); Paris, estate 1887; olio su tela cm.41.5x31.5; Amsterdam: V.G. Museum;
– Col cappello di paglia (F 61v); Parigi, estate 1887; olio su tela cm.41.0x31; Amsterdam,  V.G. Museum;
– Col cappello di paglia (F 526), Parigi, estate 1887 olio su tela su pannello di legno, cm.34.9x26.7; The Detroit Institute of Arts;
– Col cappello di paglia (F 469); Parigi, estate 1887; olio su cartone, cm.40.5x32.5; Amsterdam: V.G. Mus.;
– Col cappello di feltro grigio (F 344); Parigi, inverno 1887-88; olio su tela cm.44.0x37.5; Amsterdam, V.G. Museum;
– Col cappello di paglia (F 365v); Parigi, inverno 1887-88; olio su tela cm.40.6x31.8; New York, Metropolitan Museum of Art.
– Con cappello di paglia e pipa (F 524); Arles, agosto 1888; olio su cartone telato cm.42.0x30.0; Amsterdam: V.G. Museum.
– Con l’orecchio bendato (F 527);  Arles, gennaio 1889; olio su tela cm.60.0x49.0; Londra, Courtauld Institute Galleries;
- Con l’orecchio bendato e la pipa (F 529); Arles, gennaio 1889; olio su tela cm.51.0x45.0; Collection Niarchos.

Max Ernst 1920, E' il Cappello che fa l'Uomo (foto 1974)

VALIGIE
parte seconda H.D.S. MAROQUINERIES